Seconda puntata de "I racconti dell'olio"
Carmine e l’armonia della natura
Era sempre stato un ragazzo discolo, secondo l’opinione dei paesani, perché amante dell’avventura e del pericolo. Lo aveva inconfutabilmente dimostrato quando, ragazzino di dodici anni, facendo l’ennesima passeggiata sul cornicione del terrazzo di casa, aveva messo un piede fuori posto attirato da un grido improvviso, ed era caduto giù sul selciato del giardino battendo violentemente la testa. La conseguenza fu un trauma cranico per il quale entrò in coma. Al risveglio, dopo tre mesi, Carmine dava segni di stramberia accentuata, ma anche di pazienza. Passava giornate intere da solo, a parlare con alberi e bestiole, provocando l’ilarità generale, ma anche la disperazione dei genitori, che quando erano al massimo dell’esasperazione gli mollavano dei robusti ceffoni, “per svegliarlo” spiegavano. Carmine faceva spallucce, ma resisteva al dolore. Soltanto qualche lacrima offuscava i suoi occhi, prontamente repressa dalla forza di volontà. I ragazzi del paese lo canzonavano in continuazione e lui se ne lamentava con gli alberi, gli unici disposti ad ascoltarlo. Non aveva che l’imbarazzo della scelta, per quanti ulivi vi erano nelle campagne vicine e lontane. Anche gli alberi avevano imparato la pazienza, sicuri di superare gli affronti della natura e dell’uomo. Se il vento soffiava forte erano soliti piegarsi piano piano per sopportarne la forza e non rompersi, assumendo lentamente forme strane ma affascinanti. Le chiome argentate ed i tronchi curvi e nodosi ne facevano dei saggi in grado di insegnare agli umani la sapienza del tempo. Sapevano che la natura è come Giano bifronte, dimostrando di essere madre e matrigna, perché non sempre è benevola verso gli esseri viventi. Nel tempo gli ulivi avevano sostenuto, nutrito, incoraggiato generazioni di uomini che talvolta non li rispettavano. Durante la stagione della potatura Carmine vagava nelle campagne per consolare i feriti, infatti pensava che il taglio dei rami inutili o secchi provocasse ferite anche al mondo vegetale. Allora bisbigliava a quegli esseri parole di consolazione per incoraggiarli alla resistenza, raccontando della nuova chioma e del nuovo vigore. I pazienti sapevano già tutto, perché da secoli vedevano e sentivano ripetersi le fasi della loro vita, governata dall’uomo. Avevano, però, piacere a sentir parlare quell’amico speciale. Nel tempo, anche se raramente, qualche uomo si era distinto dagli altri per sensibilità verso di loro. Carmine era una di quelle rare persone profondamente sintonizzate con la natura, e ciò lo rendeva diverso, speciale. Se, alla fine di una giornata, non si presentava per la cena, vero momento di ritrovo per la famiglia visto che il pranzo era frugale e consumato là dove si lavorava, la madre Graziella entrava in agitazione e convinceva Pasquale, il marito, ad andare a cercarlo tra i campi per riportarlo a casa. Pasquale girovagava e quando finalmente lo trovava, seduto sotto un albero assorto nei suoi pensieri, gli tirava le orecchie e lo rimproverava costringendolo a ritornare a casa, dove il giovane doveva sopportare i rimbrotti di mamma Graziella. Alcuni monellacci, talvolta, lo seguivano nel suo peregrinare e, vedendolo parlare con gli ulivi, ridevano a crepapelle e lo insultavano pesantemente chiamandolo ripetutamente “scemo! scemo! scemo!”, intanto gli lanciavano pietruzze con le loro fionde. Al ritorno a casa malconcio, i genitori gli facevano una serie di domande alla quali non rispondeva, considerando i maltrattamenti dei ragazzacci gravi quanto quelli della famiglia. Spesso si incantava ad ascoltare l’orchestra della natura, il suono provocato dal vento che pettinava le chiome, se lieve, le scompigliava se forte. Tale suono non era costante, aumentava o calava secondo l’intensità o la presenza di raffiche. Particolarmente affascinante era la tramontana che i contadini chiamano” la signora”, perché la mattina si alza tardi e la sera va a dormire presto. L’aria frizzantina rinfresca le estati soffocanti e irrobustisce gli inverni, ma per Carmine era un’amica che aiutava gli alberi a sgravarsi delle olive. Tutto lo affascinava. Il volo delle farfalle gli ricordava la danza di folletti magici e lo spingeva a volteggiare con grazia. Il gracidio delle rane gli suggeriva misteri profondi e sconosciuti. Mentre i monelli passavano il tempo a catturare lucertole, con cappi fatti da loro con i fili sottili dell’avena selvatica, per poi divertirsi a tormentarle, lui le guardava crogiolarsi al sole sui sassi che costellavano i campi. I loro occhietti vivaci gli suggerivano l’idea di esseri intelligenti. Nelle giornate assolate, all’ombra dei giganti, volgeva lo sguardo verso il cielo limpido attraversato dal volteggio lento ed elegante della poiana e da quello del gheppio, con le ali a ventaglio, soprattutto durante il corteggiamento. In primavera sentiva il verso stridulo dei maschi, ki ki ki , che cercavano di attirare l’attenzione delle femmine. Durante tutto l’anno il gracchio delle cornacchie era un assolo che si innalzava sugli altri strumenti naturali. D’estate, poi, la cantilena delle cicale, ripetitiva, costante, infinita, invitava al sonno, al riposo. Pasquale aveva più volte tentato di portare il figlio con sé al lavoro, ma Carmine non combinava granché, perché era lento e si interrompeva spesso, assorto dalle sue riflessioni o estasiato dallo spettacolo della natura. Alla fine il padre aveva dato ragione ai ragazzacci desistendo dall’impresa. Il giovane si divertiva tanto a rincorre i conigli selvatici, a spiare i gatti intenti a cacciare lucertole e topi, con i quali giocavano prima di divorarli. Sentiva la felicità invadere tutto il suo essere alla vista delle volpi che spesso, a dovuta distanza, per qualche istante lo guardavano immobili. Le famiglie dei ricci, che attraversavano lentamente i solchi della campagna, gli rammentavano i ritmi della natura che variano come in un concerto che alterna l’allegro al molto allegro, passando per il grave e l’adagio e concedendosi pause. Il canto degli uccellini, che si nascondevano tra le chiome degli alberi, lo lasciava senza fiato. Talvolta, per le emozioni troppo intense, Carmine piangeva silenziosamente. Il volo fantasioso delle rondini, nella bella stagione, gli faceva desiderare di avere anche lui le ali per librarsi libero nel cielo e godere della leggerezza dell’aria e della bellezza del paesaggio. Vagando tra gli alberi cercava le tracce degli animali notturni, ben nascosti nelle loro tane, ma non li disturbava perché rispettava il creato. A volte, di notte, si alzava di nascosto e vagava per i campi vicini all’abitato, cercando gli occhietti lucenti di gufi, barbagianni e civette, Seguiva il padre soltanto durante la raccolta delle olive, ammaliato dagli alberi che donavano parte di se stessi. Per lui l’olio non era un semplice condimento ma il principe degli alimenti. Il giovane aveva il cuore tenero e con osservazioni silenziose aveva notato la miseria degli uomini, spirituale e materiale. Un giorno decise che doveva fare qualcosa per rimediare all’una e all’altra, come gli ulivi fanno con i loro frutti. Aveva ormai vent’anni. Si mise a scolpire i sassi dei campi. Li sceglieva con cura e, guidato dalle forme, vi scolpiva gli animali amici dell’uomo e selvatici. Ne fece tanti usando scalpello e martello. Passò quasi un anno all’ombra degli ulivi a scolpire figure, alle quali mancava solo la voce. Ogni volta che ne terminava una la nascondeva tra i sassi dei muretti a secco, camuffandola. Dopo la campagna olearia, piano piano, sottrasse al padre un po’di olio extravergine, nascondendo le bottiglie nei ventri degli ulivi ma togliendo prima le etichette per impedirne l’identificazione. Nei momenti in cui era troppo stanco per scolpire la pietra, sospendeva il lavoro e girava per i campi alla ricerca di quarzi, che accumulò in un sacco di tela nascosto tra i rovi. Passati un po’ di giorni Pasquale si accorse dei furti e cercò di scoprire il ladro ma, nonostante si nascondesse spesso nel locale-deposito, non riuscì mai a smascherare il colpevole perché Carmine sapeva dove fosse, e l’uomo esasperato si incattivì. Arrivata la vigilia di Natale, il giovane andò nell’uliveto del padre e si mise a comporre il presepe fatto di statue raffiguranti gli animali. Sotto la protezione di un grande ulivo mise una scatola di legno, come fosse una culla, sperando tanto che Gesù Bambino facesse il miracolo apparendo e lenendo le pene degli esseri viventi. Poi predispose tante lampade alimentate ad olio, poggiando accanto ad ognuna un quarzo. In un angolo ben visibile sistemò le bottiglie di olio extravergine e su ognuna scrisse il nome di una persona bisognosa. Quando fu sicuro che era tutto pronto ritornò in paese e, a tarda sera, bussò alle porte dei poveri, dicendo di seguirlo perché aveva una sorpresa per loro. Le persone gli andavano dietro più per curiosità che per fiducia, sapendo di avere a che fare con un tipo strampalato. La processione diventava sempre più lunga e si ingrossava di nuovi curiosi attirati dai rumori e dalle voci. Arrivati nell’uliveto tutti rimasero a bocca aperta per il bagliore diffuso dai lumi e dai quarzi. Poi incominciarono a focalizzare le figure di pietra e capirono che si trattava del presepe della natura. Videro la culla vuota e una donna istintivamente vi adagiò il proprio bambino. Allora si inginocchiarono e si misero a cantare per lodare Dio. Ai presenti parve che le statue fossero vive, perché ognuna pareva emettere il verso dell’animale scolpito: pecore, mucche, cavalli, asini, cani, gatti, volpi, tassi, ricci, falchetti, uccellini, conigli, gufi, civette, cornacchie, barbagianni, rospi, lucertole, rane… L’intero creato rendeva grazie a Dio. Un pianto silenzioso si manifestò negli occhi della gente. Carmine portò alcuni dei presenti presso i doni e regalò loro le bottiglie di olio extravergine sottratte al padre. I benestanti, presenti alla scena, si intenerirono e decisero di diventare generosi. Al mattino tutti trovarono in dono, accanto alla porta, una bottiglietta di olio eccellente ed un invito: il pranzo di Natale si sarebbe tenuto in piazza, perciò tutti dovevano parteciparvi. Dalle cucine dei ricchi fu portato in piazza tanto buon cibo da saziare un esercito. Da quel giorno non vi furono più persone tristi o nel bisogno. Pasquale e l’intero paese capirono che Carmine non era scemo, né strano, semplicemente era il più buono di tutti, perché dall’animo gentile sintonizzato sull’armonia della natura.
A. R. G.